La prefazione al libro “NapoliPorto. La nuova città” del Presidente Pietro Spirito
La grande frattura tra Porto e Città.
Una cucitura necessaria per lo sviluppo
Le ragioni del libro
Il 5 dicembre del 2016 è nata l’Autorità di Sistema Portuale del mar Tirreno Centrale: i principali porti della Campania esprimono ora una governance unitaria. Sin da quando è iniziata questa avventura, ho pensato che uno dei grandi temi che mi erano affidati era quello di ricucire diverse storie e diverse identità: il rapporto inutilmente competitivo tra i porti di Napoli e Salerno, la grande frattura tra porto di Napoli e città metropolitana, l’isolamento di Castellamare di Stabia. Fare sistema insomma, passando da un nome ad una pratica.
Proprio per questo motivo, mi sono convinto che la sfida era innanzitutto di carattere culturale. La ragione di questo libro sta tutta nella idea che le azioni gestionali, non supportate da forti convincimenti radicati nella società istituzionale e civile, sono destinate ad essere inadeguate, o effimere.
Da qui l’idea di affidare ad un curatore, Piero Antonio Toma, che bene conosce il porto e la storia di Napoli, una raccolta di scritti affidati ad intellettuali e giornalisti partenopei, per interrogarci tutti assieme sulle cause che hanno determinato un distacco forte tra il porto e la città. Insomma, cominciare a fare sistema, toccando una delle questioni necessarie per realizzare una forte piattaforma dei porti campani, è possibile se si avvia un lavoro collettivo di collaborazione tra istituzioni, operatori economici, società civile. In un mondo di interdipendenze crescenti, solo fare rete consente di generare il valore aggiunto necessario per azionare leve di trasformazione.
Nel Mezzogiorno fra innovazione e immobilismo, prevale finora il secondo
Nella vita economica e sociale dell’Italia meridionale, precedentemente alla formazione dello Stato unitario, sono stati diversi i momenti nei quali si sono determinate profonde riforme del sistema portuale del Mezzogiorno, coinvolgenti anche il ruolo del porto di Napoli, nel rapporto tra territori, economia e mare. Se ne parla in molti scritti del libro.
Una delle principali caratteristiche di questi cambiamenti è però costituita dalla concentrazione temporale nella quale sono racchiuse le diverse e sporadiche fasi di trasformazione, poi seguite da lunghi periodi di trascuratezza e di abbandono. Questo sembra essere il tratto comune di una storia portuale complessa, che ha visto improvvise accelerazioni ed incisive innovazioni poi, purtroppo, non sostenute da una adeguata capacità di mantenimento delle stesse nel corso del tempo.
La mancanza di costanza e perseveranza nel perseguimento di disegni riformatori a tutela dell’interesse generale costituisce una delle caratteristiche negative, endemica nella storia dell’evoluzione del sistema portuale napoletano. Si tratta, purtroppo, di un elemento comune a molti degli aspetti caratteristici della evoluzione economica e sociale di Napoli, e dell’intero Mezzogiorno d’Italia. Non a caso Benedetto Croce ha scritto: “Napoli è un paese in cui è impossibile promuovere il pubblico interesse senza rimetterci il cervello o la salute” [1].
Anche la storia del porto di Napoli conferma un deficit di sviluppo
Ostinatamente, questo libro vuole essere una testimonianza di diversi pareri, per gettare un ponte tra porto e città, oltre che per interrogarsi sulle ragioni che hanno determinato una frattura ampiamente riconosciuta, ma molto poco interrogata.
Questo tratto di storia patria – la difficile costruzione di un percorso per la tutela degli interessi collettivi e la mancanza di ponti indispensabili per superare fratture spesso mai sanate – costituisce uno dei fattori determinanti alla base del deficit di sviluppo sociale ed economico del Mezzogiorno.
Lo sfruttamento dell’emigrante
Il recupero della memoria è parte integrante nella costruzione di un ponte tra porto e città. Giuseppe Moricola ci ricorda il ruolo giocato dal porto nella lunga e dolorosa stagione della emigrazione, proprio mentre oggi i nostri porti sono luogo anche delle migrazioni inverse dai Paesi del Nord-Africa. Il porto di Napoli ha giocato un ruolo primario nella stagione lunga della emigrazione italiana, con oltre i due terzi del totale delle partenze.
Vale la pena di ricordare, perché suonano sinistramente attuali, in altri contesti, le dure parole di Filippo Turati, nel 1911: “A Napoli, più che altrove, si è acutizzata questa industria dello sfruttamento dell’emigrante. E’ cosa nota come nelle locande si accentra quel lavoro degli scugnizzi, dragomanni che si impadroniscono delle valigie dell’emigrante per poi condurlo dal medico che deve guarirlo delle malattie che ha e di quelle che non ha, dalla monaca che gli dà l’abitino o la medaglietta benedetta contro il mal di mare, dall’assicuratore che gli dà un pezzo di carta contro i rimpatri forzati, o dall’imbroglione che gli dà un pezzo di carta ugualmente senza valore facendoglielo credere un vaglia del Banco di Napoli”. E il costo del viaggio in terza classe, in condizioni davvero umilianti, era pari ad anno di lavoro.
Il rapporto di mutuo condizionamento fra centri produttivi ed attività marittime
Silvio Perrella, affrontando il tema del rapporto tra letteratura e porto di Napoli, coglie un elemento centrale che sta alla base dei ragionamenti attorno ai quali ruota il nostro libro: “Dire porto è dire città. Cioè significa strade, piazzuole, depositi, incroci, piccole trattorie, bar, palazzi circostanti. In una parola, significa Quartiere. Il Quartiere Porto a Napoli si è andato dissolvendo”.
Ora si apre una grande sfida, dopo decenni nei quali si è andata allargando la frattura, che non sta solo nell’immaginario collettivo, ma anche nella configurazione urbana, per come si è andata evolvendo. “Il Grande Cantiere della Metropolitana si deve saldare con il Grande Cantiere del Porto, quest’ultimo lasciato in disarmo per troppo tempo. Perché la Città abbia un reale rapporto con il mare di Porto devono diventare un solo Cantiere”.
Mariano D’Antonio ci ricorda che è mancato un coordinamento operativo tra le istituzioni, mentre è assolutamente indispensabile un approccio sistemico. Questo lavoro di cucitura, in assenza di un approccio istituzionale indispensabile, è stato svolto – tra gli altri – dal Propeller di Napoli: ce lo sottolinea Umberto Masucci, che ricostruisce la storia e le battaglie svolte negli anni recenti. Tornando al saggio di Mariano D’Antonio, il suo approccio metodologico – basato sulle matrici intersettoriali – pone in evidenza il rapporto di mutuo condizionamento tra tessuto produttivo ed attività marittime.
Prima di allargarne il perimetro, occorre dimostrare l’efficienza della nuova istituzione portuale
La netta differenziazione tra un lungomare occidentale a carattere paesaggistico e un lungomare orientale infrastrutturato costituisce uno degli assi di riflessione che caratterizzano il saggio di Paolo Giordano. A fare da perno tra questi due elementi sta il Molo Beverello, che fronteggia la zona monumentale della città.
Si tratta di un vero e proprio laboratorio di progettazione architettonica, racchiuso tra la realizzazione della nuova stazione della metropolitana ed i progetti di adeguamento del waterfront portuale, con la costruzione della nuova stazione marittima per il traffico del Golfo, la realizzazione del Museo del mare e della migrazione, la nuova sede della università Parthenope (con il parere contrario di Ennio Forte, e ne parleremo nei mesi prossimi).
Proprio Ennio Forte ci richiama alla necessità di concentrare l’attenzione anche sul traffico passeggeri lungo la costa, tra i due Golfi di Napoli e di Salerno, consigliando la totale separazione nelle navigazioni di interesse locale, per evitare tempi di percorrenza davvero insopportabili dal punto di vista del servizio offerto. Nella logica di rafforzare e completare l’identità del sistema portuale campano, Ennio Forte consiglia di includere nell’Autorità anche i porti di Torre Annunziata e di Pozzuoli. Sono completamente d’accordo dal punto di vista concettuale (ed aggiungerei anche Sorrento ed Amalfi), ma bisogna prima che sia dimostrata l’efficienza della nuova istituzione, che deve guadagnare credibilità ed autorevolezza. Allargare il perimetro senza aver prima messo in campo le risposte che danno il senso di una robustezza adeguata sarebbe un errore per il sistema portuale della Campania.
Lo sviluppo dei traffici marittimi si orienta sia all’est asiatico sia all’ovest americano
Massimo Deandreis ci ricorda che il Mediterraneo è un mare in cui già circola il 20% del totale del traffico marittimo mondiale. Nel segmento del trasporto di containers, tra il 1995 ed il 2016, si è registrata una crescita del 434%. La rete dei collegamenti che abbraccia il mare nostrum si sta infittendo. La Cina, attraverso la Cosco, sta realizzando investimenti per 1,5 miliardi di euro nel porto del Pireo, che presenterà da ottobre 2017 una capacità pari a 6,4 milioni di containers all’anno. Proprio il porto greco costituisce lo snodo attraverso il quale le piattaforme portuali campane sono collegate alla Via della Seta.
Ma non bisogna guardare solo alle connessioni cinesi. Il raddoppio di Panama, come quello di Suez, costituisce una innovazione infrastrutturale strategica, spesso sottovalutata. Verso le Americhe i porti della Campania, proprio recentemente, cominciano ad essere maggiormente connessi. Napoli ha due collegamenti diretti di Maersk Line, il primo armatore del mondo, da e per gli Stati Uniti e per il Messico, mentre Salerno è collegata due volte alla settimana, con “The Alliance” ed “Ocean Alliance”, al porto di New York.
Il grande potenziale marittimo di Napoli e Salerno
La forza della Campania dal punto di vista marittimo sta nel suo retroterra industriale: nel 2016 il 54% dell’import-export campano ha viaggiato via mare (contro il 37% dell’Italia). Inoltre, la Campania è una delle regioni più internazionalizzate del nostro Paese, collocandosi al settimo posto della classifica nazionale per totale import-export delle merci complessivamente scambiate nel mondo, ed essendo la prima nel Mezzogiorno. Oltretutto con una bilancia commerciale in pareggio, unica tra le regioni meridionali, che registrano invece pesanti disavanzi. E questo, anche dal punto di vista logistico, è un dato importante, perché, oltre a dare segno di sostenibilità al tessuto regionale, costituisce un fattore di bilanciamento dei traffici.
E la nostra posizione geografica ci mette nella condizione di essere perno del mar Tirreno per le merci che arrivano e partono per l’Occidente. Napoli e Salerno nel 2016 hanno movimentato assieme 35,6 milioni di merci (pari al 7,4% del totale nazionale), con punte significative per entrambi i porti nel traffico ro-ro, nel quale sono rispettivamente al sesto ed al quinto posto in Italia.
Inoltre, la Campania possiede una dotazione notevole nel segmento della nautica da diporto, con oltre 14.600 posti barca; è terza per numero (483) di posti barca destinati alle unità da diporto superiori a 24 metri, vale a dire per i grandi yacht, con potenzialità di sviluppo molto rilevanti, considerato che il 75% delle imbarcazioni di questa classe si muovono nel Mediterraneo.
Il futuro della strategia energetica e della cantieristica
Amedeo Lepore ci ricorda due elementi fondamentali per il futuro del sistema portuale campano: da un lato la strategia energetica e dall’altro il futuro della cantieristica. In assenza di decisioni su questi due fronti primari, è difficile che un sistema portuale possa essere competitivo su scala globale. L’adeguamento energetico è base per realizzare una piattaforma di “green port”, richiamata in tutte le scelte di politica comunitaria e nazionale, oltre che nelle decisioni di rinnovamento delle flotte da parte degli armatori. La modernizzazione della cantieristica, sia nella parte di costruzione di nuove navi, sia nella parte di riparazione industriale, connota ogni sistema portuale che voglia radicare la presenza dei principali armatori.
Le grandi opere del primo ‘900, dal Mercato Ittico alla Stazione Marittima
Purtroppo, come affermato nel paragrafo iniziale, agli spunti positivi di riforma e modificazione che hanno puntellato, sporadicamente, l’evoluzione portuale non si è riusciti a dare continuità e sistematicità nel tempo, per cui il porto di Napoli, sinora, non ha conquistato un ruolo duraturo di traino per la comunità economica e sociale del territorio campano che, sicuramente, gli dovrebbe competere.
La crescita avvenuta nel corso del Novecento, che ha spostato il baricentro dalle merci ai passeggeri soprattutto per i grandi flussi di emigrazione, è punteggiata anche di episodi architettonici di grande valore architettonico. Nel ventesimo secolo, il porto cerca di stare al passo con i tempi del cambiamento di paradigma. Viene, innanzitutto, realizzata su progetto di Luigi Cosenza, nel 1928 il Mercato Ittico; inoltre, su progetto di Cesare Bazzani, nasce la nuova Stazione Marittima nel 1936, per innalzare la qualità dei servizi per il traffico passeggeri di lunga percorrenza e, infine, nel 1948, l’edificio dei Magazzini Generali, seppur con una configurazione dimezzata rispetto al progetto originario di Marcello Canino.
Con la guerra l’inizio della separazione fra città e porto
Con la Seconda Guerra Mondiale, il porto subisce le conseguenze dei bombardamenti degli Alleati: resta nella memoria collettiva l’esplosione della Caterina Costa, il 28 marzo 1943, ed una serie di bunker in cemento armato dalla forma archetipale a capanna che testimoniano gli anni tragici del secondo conflitto mondiale. Per molti, è questo episodio a segnare in modo definitivo, la frattura tra porto e città.
Successivamente alla conclusione del secondo conflitto mondiale, il porto è luogo strategico per la ricezione degli aiuti derivanti dal Piano Marshall, ed assume una funzione militare dovuta alla presenza della base Nato. Comincia a scavarsi, in maniera ancora più accentuata rispetto ai primi decenni del ventesimo secolo, un profondo solco tra porto e città.
Non è un fenomeno solo napoletano. “Oggi le aree portuali si sono definitivamente separate dai centri urbani, acquisendo una autonomia che non troviamo nelle città del passato … La nuova identità del porto è tuttavia incomprensibile senza una riflessione sul distacco delle aree portuali dalla struttura urbana”[2] .
Occorre costruire una cerniera fra spazi portuali e funzioni urbane
Molte città portuali, a partire dagli Anni Ottanta del secolo passato, hanno avviato una riflessione sul nuovo rapporto che va ricostituito tra tessuto metropolitano e sistema portuale. Frutto di questo dibattito sono state profonde trasformazioni dei waterfront, come è accaduto ad esempio, per stare ad aree territoriali limitrofe, nei casi di Barcellona, Marsiglia, Genova.
Siamo di fronte alla necessità di governare un confine mobile. “È possibile osservare il processo di separazione tra città e porto descrivendolo come una vera guerra di posizione tra i due sistemi … da un lato la città, che tende ad appropriarsi dell’ambito portuale, dall’altra il porto, alla costante ricerca di spazi funzionali alle crescenti innovazioni tecnologiche e logistiche”[3] .
Gestire il confronto come un conflitto non reca vantaggio né alla città né al porto. L’effetto consiste nella paralisi delle decisioni su entrambi i versanti, che conduce da un lato ad un processo di decadimento nella qualità delle infrastrutture portuali e dall’altro ad un ingessamento della città nel suo essenziale rapporto con la risorsa mare, elemento sempre più strategico, con la globalizzazione, per essere competitivi nel mondo.
Va costruita, di conseguenza, una cerniera capace di reinterpretare i bisogni del nostro tempo, tale da assicurare al tempo stesso la modernizzazione degli spazi portuali e l’accesso intelligente di funzioni urbane, per far traspirare città e porto in un biunivoco rapporto di sviluppo.
[1] Benedetto Croce, “Taccuini e lettere. 1917-1926”, Volume II, Laterza, p. 294
[2] Rosario Pavia, “I porti delle città”, in Rosario Pavia e Matteo Di Venosa, “Waterfront. Dal conflitto all’integrazione”, List, 2012, p. 14
[3] Matteo Di Venuso, “L’interfaccia come filtering line”, in Rosario Pavia e Matteo Di Venosa, “Waterfront. Dal conflitto all’integrazione”, List, 2012, p. 52