MODELLI DI GOVERNANCE NELLE AUTORITA’ PORTUALI IN EUROPA
L’analisi del Presidente Pietro Spirito per la Newsletter dell’Isril (Istituto di studi sulle relazioni industriali e di lavoro)
Il modello organizzativo delle Autorità di Sistema Portuale in Italia
Con la riforma Delrio si è delineato un modello di governance dei porti nazionali che ha consentito di superare alcune delle criticità che avevano rallentato, nell’arco dei decenni recenti, la capacità competitiva dei scali marittimi italiani. Innanzitutto è stato superato l’equivoco primario di far sedere nel luogo decisionale i portatori di interesse economico.
La rappresentanza dei concessionari all’interno dei Comitati Portuali aveva determinato uno snaturamento nella formazione delle volontà, in quanto si era generato un conflitto tra valore pubblico e vantaggi privati nelle decisioni che venivano assunte. L’obiettivo di ripristinare una separazione indispensabile tra questi due livelli, inconciliabili per la terzietà di decisioni che hanno caratteristica di interesse generale, è stata raggiunta. L’organismo primario della nuova governance è il Comitato di Gestione, nel quale siedono solo rappresentanti dell’interesse pubblico: oltre al Presidente, i designati della Regione e dei Comuni sede dei porti.
E non si è persa nemmeno – con la nuova governance della riforma Delrio – la capacità di coinvolgere i privati nel processo di formazione delle scelte, con la decisione di istituire l’organismo di partenariato, inteso come luogo di confronto e di discussione prima di definire gli orientamenti e le scelte da parte del Comitato di Gestione. Su questo punto occorre ancora lavorare, per migliorare l’efficacia di questo nuovo soggetto di coordinamento: non esiste ancora in Italia una cultura della partecipazione responsabile.
In secondo luogo, si è provato a riportare elementi di politica nazionale nelle scelte strategiche sulla portualità, prima con la approvazione del Piano strategico sulla portualità e sulla logistica da parte del Governo nel 2015 e poi con la istituzione della Conferenza Nazionale dei Presidenti delle Adsp, presieduta dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Questo raccordo di politica nazionale è indispensabile, per due ragioni. Innanzitutto per evitare duplicazione gli investimenti e coerenza nelle scelte di posizionamento strategico della portualità italiana: sotto questo profilo il lavoro che resta da fare è ancora lungo. La Conferenza Nazionale muove ancora i suoli primi passi, non si è sinora riunita con regolarità, non ha ancora tracciato un suo iter di funzionamento operativo capace di tracciare una rotta coerente.
In secondo luogo, il coordinamento nazionale serve per elaborare in modo più efficace le scelte che devono essere poi riportate verso le istituzioni comunitarie, che costituiscono un fronte di influenza sempre più decisivo sulle scelte strategiche di politica marittima e portuale su scala sovranazionale, ormai l’unica che davvero decide le sorti di un mercato che ha progressivamente assunto una dimensione globale.
Resta da affrontare ancora la veste istituzionale attraverso la quale viene assicurata la veste giuridica delle Autorità di Sistema Portuale. Per la legislazione nazionale attuale, le Adsp sono enti pubblici non economici, stanno quindi nel perimetro delle pubbliche amministrazioni. Conviene che si mantenga questo assetto, oppure è opportuno ragionare su un completamento della riforma orientandosi verso un diverso assetto istituzionale?
Gli orientamenti istituzionali della Commissione Europea sull’assetto istituzionale dei porti
Da questo punto di vista, la discussione deve essere più laica e basata sui dati di fatto. Il recente avvio della istruttoria comunitaria sulla tassazione delle Autorità di Sistema e la decisione europea di considerare aiuti di Stato gli interventi nel settore della cantieristica dell’Autorità Portuale di Napoli, effettuati tra il 2002 ed il 2014, costituiscono una occasione per cominciare una discussione più consapevole.
Le prime reazioni, anche motivatamente, sono state più di pancia che di testa. La comunicazione della Commissione sull’avvio della istruttoria per la tassazione delle Adsp è giunta in un periodo di vacatio governativa nazionale, nella fase della campagna elettorale e delle votazioni per la elezione del nuovo Parlamento.
Non era quello il momento più adatto per avviare una analisi ed una discussione su un tema così delicato. E’ sembrato che la Commissione intendesse lanciare un segnale in una fase di inevitabile incertezza istituzionale del nostro Paese. Sarebbe stato più opportuno, dal punto di vista della forma, avviare il procedimento una volta insediato il nuovo Parlamento ed il nuovo Governo.
Ora che questa fase è trascorsa è giunto il momento per cominciare a riflettere a mente fredda. Con la lettera di richiesta di chiarimenti, la Commissione non ha fatto che ribadire un orientamento ormai profondamente radicato: i porti svolgono una attività economica, e, prescindendo dalla loro forma giuridica, devono essere sottoposti a tassazione. Su questo fronte i Governi italiani che si sono succeduti nel tempo non hanno mai contrastato questo orientamento europeo, che si è ormai radicato.
Anche in tema di aiuti di Stato vale lo stesso principi di fondo che corrisponde all’orientamento comunitario: essendo l’Autorità di Sistema Portuale un soggetto economico, al pari degli operatori, non è possibile ad avviso del legislatore comunitario che intervenga con risorse dello Stato per determinare un vantaggio economico ad uno dei concessionari.
Rispondere alla Commissione che la configurazione delle Adsp italiane risponde al modello dell’ente pubblico non economico non serve assolutamente a nulla. Della forma giuridica con la quale sono organizzate le Adsp sono perfettamente consapevoli le stesse istituzioni comunitarie che, ovviamente, riconoscono tale assetto senza alcuna difficoltà, pur se ne traggono conseguenze radicalmente differenti rispetto al pensiero diffuso nella consapevolezza nazionale.
Le Autorità portuali in Europa, ed in particolare nel Nord Europa, sono soggetti commerciali, generalmente organizzate secondo il modello giuridico della società per azioni, e svolgono un ruolo eminentemente economico, secondo un regime di libertà di impresa che consente loro di assegnare le concessioni sulla base di principi di mercato, senza procedure di evidenza pubblica.
Questa caratteristica ne rende snelle le decisioni, in modo tale che si possa operare secondo quel necessario principio di tempestività che caratterizza l’economia del nostro tempo. Gran parte dei vantaggi competitivi derivano oggi dalla capacità di cogliere tempestivamente le occasioni che si presentano per effetto di trasformazioni che spesso sono repentine, tali da non poter attendere i principi ed i riti delle gare pubbliche.
Non è poi detto che le procedure amministrative di evidenza pubblica siano necessariamente migliori in termini di trasparenza e di correttezza: la responsabilità degli amministratori, ed i principi di corretta ed efficace gestione degli asset, possono essere spesso meglio garantiti dalla sostanza delle decisioni, e non dagli involucri formali delle procedure, che certamente dilatano i tempi per operare le scelte.
Insomma, registriamo, nella mappa delle architetture istituzioni sui porti europei, una netta divergenza tra l’assetto pubblicistico italiano, ed europeo meridionale, rispetto all’assetto privatistico dei porti del Nord Europa. Sin qui non vi sarebbe nulla di singolare: spesso in Europa accade che nella organizzazione economica si seguano orientamenti diversi tra i diversi Stati.
Il problema sorge quando però l’indirizzo della Commissione abbraccia la tesi sulla natura economica svolta dai soggetti portuali rispetto alla impostazione pubblicistica e non economica con la quale tale funzione viene considerata nell’ordinamento nazionale: è esattamente quello che è accaduto con il sistema portuale, nel quale ormai è consolidata la tesi comunitaria secondo la quale i porti svolgano una funzione commerciale, e non siano una pubblica amministrazione, pur se uno Stato nazionale, come l’Italia, decide di mantenere tale assetto normativo.
Per effetto di queste divergenti impostazioni, i porti italiani si trovano tra l’incudine ed il martello: sono pubblici in Italia, e quindi soggetti a tutti i gravami delle norme pubblicistiche che comportano lentezze e procedure complesse, mentre sono privati in Europa, e quindi soggetti secondo la Commissione alla tassazione ed ai vincoli delle normative sugli aiuti di Stato.
Non è mica possibile essere competitivi stando contemporaneamente nel mezzo tra Scilla e Cariddi: occorre scegliere con chiarezza un solo indirizzo convergente tra l’assetto istituzionale italiano e quello europeo. Notoriamente, per le decisioni di maggiore rilevanza, la fonte istituzionale comunitaria è di rango superiore, e quindi verrebbe da dire che non dovrebbero sussistere dubbi su quale debba essere la configurazione istituzionale dei principali porti italiani gestiti dalle Autorità di Sistema Portuale.
Contrastare l’orientamento comunitario secondo cui i porti svolgono attività economica, non serve a nulla. Si tratterebbe di risalire la china di decenni nei quali è maturata una impostazione concettuale, modellata sulle preferenze dei porti del Nord Europa. Vale la pena piuttosto di interrogarsi su un altro punto, che viene messo in ombra dalla Commissione. Siamo davvero certo che tutti i porti europei siano tutti in concorrenza tra loro?
Questa affermazione, implicita nella argomentazione delle istituzioni comunitarie, è molto più discutibile. Innanzitutto ciascun porto, se si escludono gli scali con funzioni di transhipment, possiede geograficamente una sua catchment area, serve uno specifico mercato industriale e turistico di riferimento. Sono estremamente marginali i casi di riorientamento dei flussi logistici secondo itinerari di convenienza diversi dallacatchment area, utilizzando altri porti per ragioni di convenienza economica o funzionale.
Se, come pare largamente dimostrabile, i porti europei non sono tutti in concorrenza tra loro, ne scaturiscono una serie di considerazioni. Vanno individuati cluster di porti, dal punto di vista dimensionale e territoriale, che siano comparabili tra loro per mercato servito. Solo all’interno di ciascun cluster si potrà poi applicare il principio della concorrenza tra scali.
In secondo luogo, occorre aprire laicamente una discussione sulla forma giuridica delle Adsp in Italia. Siamo proprio certi che mantenere l’assetto dell’ente pubblico non economico sia la scelta più adeguata per assicurare la necessaria competitività e flessibilità nella governance delle Autorità di Sistema Portuale?
A me non sembra. Oggi rischiamo solo di subire due concentrici effetti negativi. Da un lato dobbiamo operare secondo criteri pubblicisti per la normativa nazionale, e quindi siamo soggetti a vincoli che rallentano la nostra capacità di operare scelte con responsabilità e con tempestività, dall’altro siamo soggetti alle decisioni comunitarie che ci assimilano a soggetti economici a tutti gli effetti.
Sui vincoli pubblicistici sappiamo noi tutti bene quali ostacoli quotidiani debbano essere affrontati. Siamo tutti consapevoli di cosa significa applicare il codice dei contratti pubblici per realizzare le opere infrastrutturali, oppure affidare per gara la gestione delle banchine. Nel causidico mondo della legislazione e della giurisdizione nazionale passiamo il nostro tempo più sulle procedure che sui contenuti, più sui ricorsi davanti ai giudici che sulle realizzazioni.
Allo stesso tempo, per effetto della normativa comunitaria, siamo gestori di attività economica, e quindi non solo soggetti alla tassazione, ma anche, per una svista delle istituzioni europee, anche alle regole della concorrenza, quando invece andrebbe su questo punto effettuato un approfondimento con la Commissione per comprendere i limiti profondi con cui tale concetto si può applicare ad infrastrutture che sono più un monopolio naturale.
Le opzioni istituzionali possibili e le questioni aperte
Varrebbe allora la pena di interrogarsi su quali profili di forma giuridica sarebbe opportuno orientare la cornice istituzionale delle Adsp, dovendo adottare una cornice istituzionale di carattere commerciale. La formula della società per azioni, che costituisce il normale riferimento quando si vuole assumere la veste di soggetto economico, richiede l’approfondimento di alcune questioni strategiche di grande rilevanza.
Innanzitutto, quale è il capitale sociale dei nuovi organismi portuali? Assegnare in dotazione il patrimonio demaniale alle Adsp richiede, con ogni probabilità, come si è fatto nel caso di Rete Ferroviaria Italiana trasformata in spa, la definizione di una concessione di lunga durata, distinguendo all’interno del patrimonio quella parte che deve restare indisponibile, quindi non cedibile al mercato, rispetto ad una parte di patrimonio non strumentale che può invece formare oggetto della iniziativa commerciale dell’Autorità.
Inoltre, le Autorità di Sistema svolgono anche ruoli di natura pubblicistica che è opportuno mantenere: pensiamo al potere di ordinanza per la tutela dell’interesse pubblico, quando si devono ad esempio revocare o sospendere concessioni per consentire la realizzazione di opere infrastrutturali di capitale importanza. Con la forma della società per azioni questo importante strumento di intervento potrebbe non essere più utilizzabile, limitando per questa via l’operatività del sistema portuale.
Andrebbero valutate opzioni che consentano di mantenere in capo ad una società per azioni anche poteri di ordinanza e di funzioni di polizia – almeno amministrativa, che sarebbero di estrema utilità per poter operare con efficacia nel perseguimento di quelle finalità di interesse generale che resterebbero in capo alle Autorità di Sistema Portuale trasformate in società per azioni.
In subordine, se non si riesce a sciogliere i nodi strategici coerenti con una trasformazione in spa delle Adsp che consenta da un lato di correre rischi sulla privatizzazione proprietaria di asset di interesse collettivo e che consente dall’altro di disporre di poteri autoritativi indispensabili per il perseguimento di funzioni di interesse generale,può essere utilizzata la veste giuridica dell’ente pubblico economico, che contempera al tempo stesso dal un lato l’esigenza di operare con flessibilità e senza lacciuoli le scelte economiche necessarie e dall’altro il mantenimento di poteri pubblicistici che sono necessari a dare ordine in un sistema che richiede un potere sovraordinato rispetto ai concessionari.
Una discussione su questi temi appare non solo matura, ma necessaria, per evitare che una riforma positiva, come quella Delrio, perda di efficacia mantenendo per le Adsp una forma giuridica troppo sbilanciata in senso pubblicistico, che ne depotenzia la capacità operativa e che pone i nostri porti in una condizione di minorità rispetto alla portualità del Nord Europa.
Non esprimo certezze su temi che sono certamente delicati e complessi. Questo contributo intende essere soltanto l’apertura di una analisi che deve essere svolta sine ira ac studio, con una modalità che guardi innanzitutto all’interesse primario di dotare l’Italia di un sistema portuale maggiormente competitivo nell’interesse del Paese, dell’industria marittima, dell’economia nel suo insieme, della logistica e dello sviluppo turistico.