“Non esiste un modello unico”: il lavoro portuale esaminato da un esperto del settore
Sergio Bologna analizza i cambiamenti in corso e le prospettive
di Emilia Leonetti
Apre significative opportunità di approfondimento quest’intervista rilasciata da Sergio Bologna, già docente universitario, esperto di logistica e di tematiche legate al settore marittimo-portuale, coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012). Spinge, soprattutto, a considerare in maniera non schematica i cambiamenti in corso nel lavoro portuale e a trovare soluzioni diversificate nei nostri porti
- Il lavoro portuale negli ultimi dieci anni è cambiato in maniera significativa. L’introduzione di nuovi e più moderni macchinari, l’informatizzazione dei processi produttivi, hanno sicuramente pesato. Come è stato affrontato questo percorso di trasformazione dalle imprese portuali, dai lavoratori e dalle Autorità Portuali?
“In Italia non mi sembra di aver visto grandi novità. Tutti aspettano di vedere Vado Ligure di APMT. L’automazione è un processo graduale. L’errore da evitare è quello di guardarla con approccio deterministico. Non esiste un modello unico, ogni terminal ha sue proprie caratteristiche, di posizionamento, di tipologia di servizi di linea, se è gateway, se fa solo trasbordo ecc.. Poi ci sono le filosofie d’impresa dei grandi gruppi terminalistici, insomma sono tante le variabili che condizionano le scelte tecnologiche. Almeno, questo ci dicono esperti come Rodrigue e altri. Un’automazione spinta, tipo Altenwerder di Amburgo o Maasvlakte 2 di Rotterdam, conviene solo a determinati volumi, e comunque sono cose che ormai hanno dieci anni e più di anzianità. In Italia non penso che possa avvenire un cambiamento tale da chiamarlo “trasformazione”. Solo il VTE, mi sembra, abbia fatto investimenti importanti sulla gestione del gate, sulle nuove gru elettriche di piazzale e su gru di banchina più potenti, ma rimangono forti criticità nei collegamenti ferroviari con l’Hinterland e nella presa e consegna da parte degli autotrasportatori. Il “paradigma tecnologico” è solo una delle componenti del sistema, bisogna evitare di esserne prigionieri.”
- Per restare sul tema della trasformazione, può esaminare quali sono i settori e quali le innovazioni tecnologiche che hanno maggiormente inciso? Penso ad esempio al settore del traffico container ma anche ai cambiamenti indotti dalla recente riforma con l’accentuazione del valore della “logistica” nel sistema portuale.
“Il porto del futuro, il porto digitale, probabilmente lo vedremo prima in Asia che in America o in Europa. I terminal container e di rinfuse sono ad automazione spinta ma i terminal Ro Ro, project cargo, breakbulk, heavy lift, resteranno più o meno come ora. Le Autorità Portuali non hanno un ruolo specifico in questi processi di automazione, possono invece fare grandi passi avanti nella connettività con altre amministrazioni. La logistica intesa in senso ampio è coinvolta pesantemente nei processi di digitalizzazione ma non è detto che le cose corrano poi così in fretta. Un’indagine svolta dalla mia Associazione, la Bundesvereinigung für Logistik, presso le aziende tedesche, che notoriamente sono all’avanguardia, ha rivelato che una buona metà ci pensa due volte prima d’introdurre innovazioni che possono mandare all’aria sistemi informatici costruiti con tanta fatica. Sono operazioni rischiose e costose, che hanno bisogno di fasi di transizione, durante le quali l’azienda non si può fermare. Poi c’è tutta la partita, sempre più importante, della protezione da attacchi cibernetici. In Italia a che punto siamo? Bah, io vedo ancora tante cooperative di facchini nella logistica ed una situazione del lavoro nei magazzini che è più degradata rispetto a quella che si riscontra nei porti, con un livello d’illegalità molto diffuso. Perciò, ripeto, stiamo attenti a non attribuire troppa importanza al paradigma tecnologico interno alla filiera marittimo-portuale.”
- Ma lei allora come vede un caso come quello della compagnia marittima danese Maersk che sta sperimentando con Ibm dei sistemi per migliorare efficienza e sicurezza del trasporto mercantile; l’obiettivo sarebbe quello di velocizzare le decine di autorizzazioni necessarie per trasportare la merce da un porto all’altro. Ogni documento viene notificato a tutti nello stesso momento e la notifica, essendo criptata, costituisce la vidimazione.
“E’ appunto questo che intendevo con connettività, non mi sembra davvero una cosa rivoluzionaria. Sono quindici anni che la logistica è concentrata sul problema delle piattaforme collaborative. Mi sembra invece più interessante seguire i progetti che certi grandi gruppi del mondo dei trasporti e della contract logistics come Kühne&Nagel sviluppano con i giganti dell’e-commerce, anche nel tentativo di arginare la loro espansione nell’universo dello shipping, del global forwarding e del b2b in generale. Si pensi a quello che è successo con i corrieri espresso agli inizi degli anni 90. Si erano specializzati nei parcels, nei servizi postali, ma poi sono diventati dei fornitori di servizi logistici complessi e di spedizioni internazionali di carichi d’ogni genere. I porti dovrebbero stare più attenti a quello che succede alle loro spalle, perché ho l’impressione che i cambiamenti più forti verranno da lì, non dall’interno della filiera marittimo-portuale dove a mio avviso fenomeni di tipo oligopolistico, eccesso di stiva, gigantismo, stanno producendo più sconquasso che l’automazione in quanto tale (navi a guida autonoma, robot di piazzale ecc.).”
- Quali sono le figure professionali che scompariranno e quali quelle nuove che si affermeranno?
“Questa è una bella domanda. In genere si risponde: personale tecnico più qualificato, più istruito, dove dominano le figure che hanno a che fare con i processi digitali, mentre spariranno tante figure amministrative o di controllo, per non parlare dei lavori manuali esecutivi. Visione un po’ schematica, a mio avviso, perché innanzitutto non si tiene conto del fatto che proprio certe figure di altissima specializzazione informatica, ma anche di controllo di impianti automatici molto probabilmente saranno esterne all’azienda e in capo a società di service, in grado di tenere sotto controllo più clienti contemporaneamente. Inoltre non si può paragonare un porto a un impianto chimico o siderurgico automatizzato. Il porto è un ambiente aperto, esposto agli eventi atmosferici che serve dei clienti esposti ancora di più a tutte le incognite naturali, organizzative, commerciali ecc.. Avrà sempre bisogno di figure in grado d’intervenire tempestivamente in maniera molto tradizionale nelle mille piccole emergenze che sono il pane quotidiano e che nessun programma, nessun software, può sostituire. Saranno non meglio identificati “servizi ausiliari” a supporto di impianti robotizzati. Quindi non è escluso che la composizione della forza-lavoro del terminal del futuro sia un misto di figure strategiche per il loro know how in capo a un soggetto esterno e di figure abbastanza tradizionali in capo all’azienda concessionaria.”
- In questo quadro di profondi cambiamenti, parlare di CULP ha ancora senso?
“Perché non dovrebbe averlo, scusi? Sono quarant’anni che mi sento ripetere in tutte le salse che il modello del lavoro a chiamata di un pool stabile di mano d’opera è superato e sono quarant’anni che vedo coloro i quali ne predicano la soppressione essere i primi ad approfittarne dei suoi vantaggi. Se alcune compagnie portuali sono sparite o fallite non è stato quasi mai perché il modello di prestazione di mano d’opera non funzionava in sè e per sè, ma per errori, improvvisazioni o comportamenti scorretti da parte di dirigenti e amministratori. Se in una compagnia mi fai diventare tutti dirigenti mentre il tipo di lavoro svolto è quello da manovale, retribuito a questo livello, è ovvio che si va a gambe all’aria. La qualità del fattore umano in un’organizzazione di pura prestazione di mano d’opera è l’unica risorsa decisiva. Il fatto di avere anche un paio di ralle o di semoventi non cambia le cose (c’è da dire anche che considerare un art. 17 come un’impresa che opera liberamente sul mercato è prendersi in giro). L’altra condizione essenziale per la sopravvivenza delle compagnie è data dai comportamenti dei suoi utilizzatori e dalle forme della loro utilizzazione. Vuoi far crescere la gente o vuoi impiegarla solo nei lavori peggiori dove i tuoi dipendenti non ci vogliono andare? Non t’interessa disporre di operatori in grado di coprirti quasi tutte le posizioni di lavoro in caso di assenze o di picchi di lavoro o di emergenze di vario tipo?”
- Con il Decreto Sud, legge n.18 del 2017, è stato previsto l’istituzione di un nuovo modello organizzativo basato sull’Agenzia per la somministrazione e la riqualificazione dei lavoratori portuali. In che modo si stanno ridefinendo compiti e ruolo dell’impresa fornitrice di lavoro temporaneo?
“Davvero si è prefigurato un nuovo modello di organizzazione del lavoro? A me non sembra, si è chiamato “nuovo modello” un meccanismo di contenimento di crisi occupazionali, si è creato un nuovo tipo di ammortizzatore sociale, perché c’erano di mezzo Taranto e Gioia Tauro e il ricorso alla Cassa Integrazione non bastava. Dal punto di vista della tutela del lavoro un’agenzia partecipata dal pubblico offre maggiori garanzie che un articolo 17 e può disporre, nel caso specifico, di maggiori risorse per programmi di riqualificazione. Ma quando manca il datore di lavoro, mi sembra difficile trovare soluzioni che non siano di puro assistenzialismo. Mi auguro che a Taranto un imprenditore come Yildirim, che ha già dimostrato di essere scaltro e accorto nel suo passaggio in CMA CGM, possa raddrizzare le sorti di uno scalo importante per l’Italia e per il Mediterraneo. Più nebuloso mi sembra il futuro di Gioia Tauro e lì c’è qualcosa che non capisco. Si lamentano della concorrenza di Tanger Med, ma chi ha investito in Tanger Med? Lo stesso gruppo di Amburgo che controlla Contship Italia. Nel 2017 il loro terminal ha movimentato 1,4 milioni di Teu a Tanger Med, quanti di questi sono stati sottratti a Gioia Tauro?”
- La AdSP di Trieste, che Lei ben conosce, ha dato vita all’ Agenzie del Lavoro sin da ottobre 2016. Cosa ne pensa? Quali sono i risultati e come sono stati raggiunti? Soprattutto sul piano della creazione di nuove opportunità di lavoro o di sostegno all’occupazione portuale.
“Quando Zeno d’Agostino e Mario Sommariva sono arrivati a prendere in mano le redini del porto di Trieste hanno trovato la situazione, credo, più degradata dal punto di vista del lavoro di tutti i porti italiani. Cooperative fallite, decine di gente a spasso, cause, ricorsi, tanto lavoro per i tribunali e poco sulle banchine. Avrebbero potuto dare il colpo di grazia e chiudere l’esperienza del modello di lavoro portuale una volta per tutte. Invece hanno avuto il coraggio di mettere subito le mani su quel problema e di affrontarlo nell’unica maniera positiva, quella di avere, prima di tutto, rispetto per il lavoro e dunque cercare di tutelarlo. Una scelta di civiltà che è stata premiata. Non so quanti Presidenti avrebbero fatto lo stesso. Poi la fortunata coincidenza con l’arrivo di operatori, clienti e investitori che hanno portato traffico ha fatto il resto. Decisivo però il sostegno che d’Agostino ha trovato presso la Regione governata da Debora Serracchiani e presso il Ministero di Delrio. Speriamo che i nuovi governanti regionali e nazionali sappiamo continuare su questa strada.”
- Nel porto di Genova, la CULP resiste. Come valuta il caso? E’ l’ultima roccaforte di un modello di impresa portuale che permane per la sua storia e per la forza o può, con alcuni accorgimenti, continuare a esistere accanto magari alle costituite o costituende Agenzie del Lavoro?
“Conosco i “camalli” genovesi dal ‘77/’78 quando davvero erano una forza sociale che incuteva rispetto a tutti: partiti, sindacati, amministrazioni pubbliche, armatori e terminalisti. Oggi sono molto indeboliti, da 7 mila che erano sono rimasti in mille. Erano un’organizzazione in grado di controllare il ciclo operativo, oggi sono pura prestazione di mano d’opera. Ne ho sentite di tutti i colori sul loro conto, che sono sfaticati, spreconi, obsoleti. Ma forniscono ancora il 50% delle ore lavorate nel porto, dunque vuol dire che a qualcuno conviene chiamarli a lavorare. Ne vedo tanti che fanno anche tre turni in un giorno. Dunque quelli che sbraitano sulla fine di quel modello sono ancora quelli che non sanno farne a meno. Ma fosse solo questo, pazienza. A dicembre, come ogni anno, non avevano i soldi per pagare gli stipendi. Se li erano mangiati? No, alcuni terminalisti non avevano pagato le fatture, magari gli stessi che non restituiscono i soldi avuti in prestito dalle banche (Carige docet). Allora, mi dica: abbiamo a che fare con modelli superati, ottocenteschi o con imprenditori che non meriterebbero di esser chiamati tali ma con termini che potrebbero far arrossire delle signore?”