Sylvain Bellenger: lo sguardo sulla città dal sito Reale di Capodimonte
Il racconto di Napoli del Direttore del Museo
Di Emilia Leonetti
Incontrare Sylvain Bellenger è un’occasione importante per tante ragioni. La prima è la sua naturale cortesia verso l’ospite, la seconda è la disponibilità a raccontare la sua esperienza alla direzione del Museo della città, come ama definire Capodimonte. La terza è l’intelligenza, l’apertura ad una visione internazionale del museo e del suo rapporto con la città. Aggiungo una quarta ragione: il suo sguardo sempre attento sull’interlocutore, profondo come può esserlo quello di chi è allenato a osservare, a entrare nella descrizione del mondo attraverso un quadro, uno spazio, un’opera d’arte. Pensavo che avrebbe dedicato poco tempo alla nostra intervista. E’ durata quasi due ore.
- Direttore Sylvain Bellenger, partiamo dal Museo e dal suo rapporto con i cittadini. Quale funzione deve, a suo parere, svolgere un Museo? E’ sufficiente essere centro di mostre? Talvolta di eventi?
“Devo precisare che un museo e una collezione sono due concetti distinti. Nel nostro secolo esistono musei senza collezioni, che organizzano solo mostre, che spesso comunicano emozioni, informazioni, sentimenti non necessariamente legati ad un’opera d’arte. Un esempio di quanto affermo sono le Kunsthalle in Germania, in cui si tengono solo mostre. Negli Usa, a Forthworth (Texas), è stato costruito un edificio spettacolare destinato a museo e che solo dopo ha attratto i collezionisti, che hanno donato opere per l’edificio. Noi, nel vecchio continente, abbiamo la chance di possedere un patrimonio di opere d’arte unico al mondo. Capodimonte ha una collezione leggendaria, una delle principali in Italia. Siamo un museo unico, che, grazie alla collezione Farnese, illustra l’arte dal 300 ad oggi. Nel 1979 il museo, grazie a Raffaello Causa e Lucio Amelio, ospitò la prima mostra d’arte contemporanea. Siamo in un museo di rilievo internazionale, che esprime l’arte italiana al più alto livello, con opere che si trovano in tutti i libri d’arte. Aggiungo che Napoli, dall’epoca degli Angioini in poi, è sempre stata una città in cui sono passati artisti di primario livello mondiale, da Giotto a Caravaggio. Gli artisti hanno inciso sull’arte della scuola napoletana e, a loro volta, ne sono stati influenzati. Questo mi porta alla sua domanda: un museo è non solo la memoria, è anche l’attualità di una città. Ora, dopo La riforma del Ministro Franceschini, dobbiamo parlare anche del bosco. La riforma ha consentito di riunificare il sito reale al bosco, il più grande parco urbano d’Italia: 134 ettari con un muro di cinta di 6 km. Quattro volte il giardino di Boboli di Firenze. Se poi consideriamo l’area dedicata al museo, abbiamo 126 gallerie, gli Uffizi 66, Brera 37. A Napoli siamo sempre nella dismisura. Fa parte dell’identità napoletana. E la Reggia riflette la dismisura. Dico questo per insistere sul fatto che un museo è lo specchio della città.
Tornando al bosco, è stato creato dalla volontà della dinastia borbonica. Gli alberi, ora che sono gestiti dalla direzione del Museo, sono considerati come opere d’arte, li studiamo, li classifichiamo come per le opere d’arte. Capiamo così che vengono da tutte le parti del mondo. Perché? Perché Napoli è un grande porto, ed è sempre stata una città internazionale. Il bosco riflette l’identità della città. Un museo funziona quando una città lo riconosce come suo. Per questo il mio primo gesto, quando sono arrivato nel novembre 2015, è stato riaprire il belvedere, tagliando la siepe che da 15 anni impediva la vista della città.”
- Insistendo, dunque, sul museo specchio della città. Qual è il legame con i cittadini? In che modo sta operando?
“Napoli non sente in maniera sufficiente questo legame. E’ una distanza mentale. La frattura risale agli anni 70-80 del secolo passato quando i musei erano delle collezioni appannaggio di studiosi e di un élite sociale. La nostra missione è certamente quella di essere luogo per studiosi e per élite, ma è anche quella di essere, attraverso l’arte, uno spazio di civiltà e di civismo. L’educazione non è solo della storia dell’arte. Quando accompagno i ragazzi delle scuole nelle visite, insegno loro a guardare, a interrogare l’immagine, a valutare il sistema dei colori. L’ educazione visuale serve per diventare persone attente agli altri, sensibili verso l’umanità e verso il mondo. Anche per il bosco ho prima osservato in che modo venivano usati gli spazi. Ho visto che imperava l’anarchia. Non c’era un regolamento. L’anarchia non è solo disordine, è la legge del più forte. Difendere l’anarchia è difendere un’assenza di giudizio, difendere chi prevarica. Per questo abbiamo scritto un regolamento, e ora il bosco è disciplinato. Ci sono gli spazi per i bimbi, per grandi e per piccoli cani, spazi di calcio per i ragazzi, per chi gioca a cricket, percorsi per chi vuole fare jogging e così via. Dell’uso abbiamo fatto un regolamento. E’ un primo passo. Non ha senso per me proibire senza offrire alternative.
Un museo non è solo un luogo dove persone sapienti distribuiscono il loro sapere, è anche un luogo di emozioni, di scoperte personali. Dall’ inizio ho introdotto la cultura della partecipazione.
Due esempi: adottare una panchina e un albero in un paese individualista è un impegno significativo. Siamo riusciti a far adottare cento panchine dai cittadini: il gioco era donare una panchina al bosco che fosse identica alla panchina dell’epoca borbonica. In gruppi o da soli, i cittadini, attraverso l’associazione Amici di Capodimonte, sul nostro sito, hanno fatto le donazioni che ci hanno permesso di realizzare cento panchine. Ora spero che tutti coloro che hanno contribuito, utilizzino le leggi dello Stato per gli sgravi fiscali previsti. Un museo è anche uno strumento per costruire la coscienza repubblicana che, se ben coltivata, porta i cittadini a votare, a votare meglio. Anche il Governo migliora, e i cittadini iniziano a fidarsi. Usciamo così da una situazione che trovo grave: molti, in Italia, pensano che i politici siano nefasti. Non è vero e mi preme ricordare il dono di un uomo politico al suo Paese: di energia, di tempo, di visione. Sbagliando o no, c’è un’ingratitudine verso chi antepone interessi collettivi a quelli personali. La trovo anche un’accusa facile. Con la partecipazione proviamo a far capire che, prima di chiedere, bisogna donare. Siamo solo in apparenza lontani dall’arte. Un’artista è qualcuno che dà, che esprime, crea e lo fa per gli altri. Questa missione non è distante dal Museo, è al centro della creazione artistica.”
- Veniamo agli altri Musei della città. Penso al Mann, ma anche a Cappella San Severo, al Madre. Quale deve essere a suo parere il collegamento?
“Siamo in collegamento. Le vecchie Sovrintendenza, cui un sistema obsoleto dava competenze troppo estese, puntavano prima di tutto a conservare. La cultura non è un bene solo da tutelare, è un’identità quotidiana, un fattore di sviluppo economico. La Campania ha un potenziale enorme. La rete esiste già. Le collezioni sono sparse nei vari musei. La collezione Farnese, ad esempio, è in parte a Capodimonte, in parte al MANN, in parte a Palazzo Reale. I simboli del potere delle famiglie regnanti di Napoli (i Borboni, i Murat o i Savoia) sono in parte a Capodimonte, alla Reggia di Caserta, al Palazzo Reale. Vi sono senza nessuna logica chiara. Per casualità. Siamo, quindi, in rete storicamente. Lo siamo poi attivamente. Con il collega Paolo Giulierini abbiamo realizzato un accordo sulla biglietteria, poi abbiamo siglato una convenzione con il Madre. Ho chiesto al bravissimo Andrea Viliani di essere il curatore dell’arte contemporanea a Capodimonte. La cosa che ci differenzia è che siamo Musei autonomi, ognuno con un Direttore, con un proprio statuto, un comitato scientifico, un comitato di amministrazione, come i grandi musei dell’Europa. La nostra missione è far diventare i siti, dei musei del 21 secolo con servizi educativi, sociali che il pubblico contemporaneo attende. E’ un’attività permanente. Abbiamo atelier, conferenze, i nostri siti virtuali sono un’attività quotidiana. La partecipazione è al centro dell’educazione. Tra poco si aprirà, nel nostro museo, una scuola di Apple per la creazione di applicazioni. Tengo molto a far entrare Capodimonte nel linguaggio contemporaneo e delle nuove tecnologie. La creazione di internet è una rivoluzione simile a quella della stampa, che ha cambiato l’identità umana. Siamo incatenati al mondo e se i musei non entrano in questa cultura rischiano di diventare obsoleti.”
- Lei viene da un’esperienza internazionale. Soprattutto da una Nazione che, dalla fine degli anni 70’, ha puntato sulla cultura e sulla creazione di un sistema culturale per il suo sviluppo. Cosa ci vuole per fare sistema? Per fare della cultura un fattore di trasformazione sociale e economica di Napoli?
“Qui c’è un ritardo di 60 anni. La prima cosa che andrebbe fatta è mettere il pubblico al centro della missione delle Istituzioni. Perché la nostra funzione educativa è troppo parziale. Non voglio che i giovani visitatori di Capodimonte sappiano chi è Antonello da Messina. Voglio che sappiano guardare lo studiolo di “San Girolamo” e comprendere l’universo intellettuale che è lì rappresentato. E’ una camera per sé. Desidero che abbiamo la capacità di capire cosa significa costruire un universo di senso. C’è un pittura, qui, di Matteo di Giovanni, pittore senese che raffigura il massacro degli innocenti. Questa pittura racconta un momento orrendo della storia del cristianesimo. Se si guarda bene si vede una lunetta da cui si affacciano quattro bambini. Uno di loro è nero. Perché? Per me questo quadro rappresenta la pittura: guardando vediamo i bimbi che guardano.
Tutta la pittura è una lezioni di sguardi e tutti si guardano nella pittura. Il senso dell’espressione pittorica è lo sguardo. Osservare serve per porsi domande. Alla fine, cosa è educazione se non educazione alla sensibilità?
Venendo alla sua domanda, quello che ho imparato nel periodo in cui ho lavorato a Chicago è l’amore dei privati verso il pubblico. Il legame del museo con la comunità. L’impegno morale e intellettuale dei privati nei confronti delle Istituzioni culturali della città.
Durante la mia direzione al museo americano avrei voluto acquistare un’opera di Tiziano perché ritenevo che guardare solo Andy Warhol non fosse formativo per i giovani. Ci voleva anche Tiziano. Non è stato possibile. Qui al Museo di Capodimonte abbiamo undici quadri di Tiziano. Ma quanti a Napoli lo sanno? Il grande problema di Capodimonte non è spaziale, come credono in molti. Quando vivevo a Londra impiagavo due ore di metro per raggiungere il British Museum. Nessuno a Londra o a Parigi dice “ non posso venire a visitare il museo perché è troppo lontano”.
La distanza, a Napoli, come le dicevo prima, è mentale. L’isolamento è la conseguenza dell’ignoranza. Quando sono arrivato, le mappe turistiche si fermavano prima di Capodimonte. La segnaletica in città non c’è. Come se la città di Vienna avesse cancellato i suoi principali musei. Capodimonte è stata cancellata. Il Sindaco mi ha assicurato che tra poco, ma non so quanto poco, la segnaletica della città sarà rivista iniziando da Capodimonte. Grazie a Citysightseeing c’è un collegamento continuo, puntuale e che arriva all’interno del bosco. Non è abbastanza comunicato. Ma piano piano sta entrando nella mente che c’è la navetta da Piazza Trieste e Trento. A breve organizzeranno una maratona che dalla Mostra d’Oltremare terminerà al Bosco. Il bosco è anche un luogo per lo sport, visitato ogni anno da oltre due milioni di persone.
Voglio dire che fare sistema è un processo lento. Il comportamento e il rispetto verso il bosco c’è e si è realizzato in un anno.
Quando guardo l’Italia sono colpito dal fatto che esiste un tessuto imprenditoriale moderno. Ma quando si parla di cultura c’è un blocco. Il sistema statale deve ispirarsi al privato e utilizzare al massimo il genio imprenditoriale per modernizzare lo Stato. Mi trovo con strutture istituzionali paralizzate dalla burocrazia. Lo dicono tutti ma non cambia la mentalità. Senza il senso dello Stato, della Repubblica, del dovere pubblico non cambierà l’Italia. La riforma Franceschini ha fatto entrare una logica nuova che è inizio di un cambiamento. Ma ci vorranno 10-20 anni. Il problema, in realtà culturali come Capodimonte, non è tanto economico ma prima di tutto di personale. In Francia si organizzano concorsi nel settore dei Beni Culturali ogni anno. In Italia l’ultimo si è tenuto un anno fa e non è ancora concluso. E’ un concorso che non prevede funzionari amministrativi. Noi abbiamo 19 edifici e solo 3 curatori, 1 architetto. Come si può fare ad operare seriamente? E’ molto difficile, ma come dico spesso le cose normali a Napoli non sono possibili, si fanno i miracoli”
- Dott. Bellenger, vorrei, come ultima domanda, chiederle del rapporto con il porto. Quali sono i collegamenti? Quali sono gli sviluppi dell’incontro sulle città portuali, tenuto ad ottobre con l’università di Dallas cui prese parte il nostro Presidente Pietro Spirito?
“L’edificio “La Capraia” sarà destinato come sede della fondazione per lo studio della cultura delle città portuali. Il Presidente Spirito fa parte del Comitato scientifico. L’intenzione è portare avanti una ricerca multidisciplinare sulla cultura di città portuali come Napoli. D’altronde la storia dell’arte non può non essere che la somma di tutte le conoscenze. Se ciò non avvenisse saremmo fermi al Vasari, e i musei sarebbero dei luoghi morti. Ma come ho provato ad esprimere in questa nostra intervista, i musei sono dei luoghi vivi, aperti ai cambiamenti e all’umana ricchezza.”