L’Opinione
Il Rapporto SRM sull’economia marittima tra pandemia e questioni strategiche
di Pietro Spirito*
Giunto alla sua settima edizione, il Rapporto annuale di SRM, centro studi collegato al Gruppo Intesa San Paolo, costituisce un appuntamento di approfondimento e di riflessione davvero prezioso per valutare le tendenze in atto sui temi dell’economia del mare e della logistica.
La prima parte del Rapporto SRM analizza gli effetti della pandemia. Si tratta di una inevitabile necessità, non solo perché il crollo dei traffici ha assunto dimensioni particolarmente rilevanti nel corso del 2020, ma soprattutto perché – anche nello scenario degli anni futuri – le ricadute degli eventi ancora in corso saranno destinate ad incidere anche nello scenario di medio termine.
Dopo 38 mesi consecutivi di crescita, il Canale di Suez ha fatto registrare, nel mese di maggio 2020, un calo di poco inferiore al 10% in termini di stazza delle navi transitate; molte compagnie, visto il basso prezzo del petrolio, hanno preferito non varcare il Canale, nonostante una massiccia politica di scontistica applicata dall’Autorità di Suez sulle tariffe di transito, affrontando invece la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, con circa 3.000 miglia aggiuntive di navigazione.
Contestualmente si è determinata la cancellazione di rotte marittime programmate, con navi che, pur avendo una partenza prevista, non l’hanno effettuata oppure non hanno toccato scali, per mancanza di carichi da imbarcare o sbarcare. Lungo l’asse di collegamento tra Asia ed Europa, nel periodo tra aprile e giugno 2020, si sono registrate 84 partenze non effettuate rispetto alle 374 schedulate, con una riduzione del 22,5%. Numeri ancor più rilevanti di cancellazioni si sono verificati nella rotta transpacifica, quella che collega l’Asia con gli Stati Uniti.
La pandemia è destinata a consegnare al futuro elementi strutturali di cambiamento. Con molta probabilità vivremo una stagione di regionalizzazione della globalizzazione, con una tendenza verso la ristrutturazione delle catene di approvvigionamento, perduranti tensioni protezionistiche, un ruolo sempre più forte della geopolitica negli investimenti logistici, una crescente rilevanza delle innovazioni tecnologiche e della digitalizzazione.
Sono anche tanti altri i temi che il Rapporto SRM tratta quest’anno: dalla sostenibilità ambientale alla intermodalità, dalle sfide della rotta artica al futuro dei porti meridionali. La sostenibilità, in particolare, appare un’area di primario rilievo nella definizione del profilo strategico di futuro: occorre cercare di bilanciare crescita economica, sviluppo sociale e culturale, tutela ambientale ed innovazione tecnologica, in un corretto mix di azioni e competenze.
Particolare rilievo viene assegnato al percorso di decarbonizzazione dell’industria marittima. Lo shipping è responsabile del 2,6% delle emissioni globali di anidride carbonica nel 2015: in assenza di azioni tale valore potrebbe salire a ben oltre il 10% entro il 2050.
L’International Maritime Organization (IMO) ha fissato il target di ridurre le emissioni totali di gas serra di almeno il 50% del livello 2008 entro il 2050. Nella proposta di regolamento che stabilisce il quadro per raggiungere la neutralità climatica, la Commissione Europea ha ribadito il target di emissioni nette pari a zero entro il 2050. Dato che il trasporto marittimi rappresenta il 13,4% delle emissioni nel settore dei trasporti nella UE, gli obiettivi fissati dall’Europa vanno anche ben oltre rispetto al target fissato dall’IMO. Traguardi di cambiamento così radicali possono essere perseguiti mediante un insieme di strumenti, che possono essere raggruppati in tre aree principali: misure di efficienza energetica, combustibili alternativi e forme di propulsione alternative.
In questo scenario sta trasformandosi profondamente la funzione che svolgono i porti quale cerniera marittima del sistema internazionale dei trasporti. In origine il porto era semplicemente il ruolo di interfaccia del carico tra trasporto terrestre e trasporto marittimo, con una netta perimetrazione di attività rispetto al resto delle funzioni territoriali. Con i porti di seconda generazione si passa ad una maggiore integrazione con l’ambiente circostante, non solo con la funzione di trasporto ma anche con quella industriale e commerciale. Dal porto emporio si evolve verso il porto impresa.
I porti di terza generazione delineano, nel corso degli anni Ottanta del secolo passato, una rete di connessioni su scala internazionale a supporto della globalizzazione: si sviluppa fortemente il traffico dei contenitori con la crescita delle esigenze derivanti dalla crescita del commercio mondiale. Il porto è visto come il fulcro della rete internazionale di produzione e distribuzione.
Con il porto di quarta generazione si passa alla gestione comune di aree portuali fisicamente separate, ma collegate tra loro attraverso la presenza di medesimi operatori: si consolida in questa fase il modello di funzionamento hub & spokes, con le navi madre che scalano i porti di pescaggio maggiore e le navi feeder che raggiungono i porti maggiormente vicini alle destinazioni finali dei contenitori.
I porti di quinta generazione sono caratterizzati dalla creazione di valore aggiunto e dalla complessità della logistica portuale. In questo assetto i porti sono focalizzati sia sui clienti sia sulla comunità locale, offrendo una profonda integrazione tecnologica con gli stakeholders. Occorre quindi cooperare con il territorio per individuare le priorità, consentendo uno scambio fluido tra il porto ed il suo hinterland.
Con i porti di sesta generazione, che traguardano scenari dei prossimi decenni, si dovrebbero possedere tre caratteristiche: la possibilità di gestire navi portacontenitori con una capacità di 50.000 teus, con un pescaggio di 20 metri; una automazione completa del terminal container; una gestione dei collegamenti intermodali che consenta il trasporto di merci containerizzate con bassi costi esterni.
Si delinea in questo caso una condizione asimmetrica tra costi e benefici; le compagnie armatoriali raggiungerebbero un livello inferiore di costi unitari grazie alla distribuzione dei costi del trasporto marittimo su un numero maggiore di contenitori, mentre la parte più onerosa degli investimenti sarebbe a carico della mano pubblica.
I nodi del gigantismo navale sembrano giungere al pettine. Ma lo si è detto talmente nel corso del passato decennio, che non si può essere certi sul destino futuro del modello di organizzazione del mercato marittimo e portuale. Tutto dipenderà dalla via d’uscita che si determinerà per il sistema manifatturiero a seguito della crisi post-pandemica.
*Presidente AdSP Mar Tirreno Centrale